10 Luglio 2021

Agente di commercio o procacciatore d’affari?

Agente di commercio o procacciatore d’affari? Qual è il confine tra le due figure? Sapendo che la prima è presidiata da norme e la seconda no!
È noto che ambedue hanno una origine nel nostro passato.
Chi non ricorda il “commesso viaggiatore” di Quattro passi tra le nuvole (Alessandro Blasetti – 1942) o il “sensale” dei mercati di paese nell’Italia rurale di un tempo?
Ma l’Italia nel secondo dopoguerra – nei venti anni dal 1953 al 1973 – cambia, realizza il cosiddetto “miracolo economico” trasformando la sua economia da essenzialmente agricola in industriale e introducendo, progressivamente, welfare e crescita di reddito e, quindi, i fattori di incremento della domanda interna e dei consumi.
Il ruolo dell’agente di commercio, in questo processo, è decisivo: vero asset commerciale ineludibile di un sistema di microimprese produttive in cerca di quote di mercato.
Il commesso viaggiatore – ora diventato agente di commercio – mantiene lo stesso valore aggiunto. Cioè: sé stesso, la sua capacità di muoversi sul mercato, la sua lettura dei fattori di sviluppo.
Questo modello di impresa commerciale così tanto prossima al “lavoro autonomo” subisce una progressiva trasformazione che trova nell’istituto della” impresa familiare” il suo momento decisivo grazie al ruolo organizzativo back office del collaboratore, quasi sempre la moglie dell’agente. Questo breve richiamo alla genesi dell’impresa commerciale serve a far capire quanto i processi evolutivi vengano da lontano e abbiano contribuito al pur parziale consolidamento d’impresa del settore.
L’agente di commercio è un’impresa commerciale che, nel tempo, pur in maniera discontinua, si è consolidata sia nella struttura d’impresa che nella gestione del processo produttivo pur rimanendo insostituibile e prevalente la figura dell’agente sia esso titolare di ditta individuale o legale rappresentante di società.
Questa lunga premessa mi consente di dire che è veramente lontana dalla realtà l’annosa distinzione tra la figura dell’agente e del procacciatore a meno che non sia rimasto il sensale d’anteguerra e non abbia subito un diverso ma speculare processo di trasformazione che, invece, ha avuto a partire dall’entrata in vigore, nel 1985, della Legge 204.
Tale Legge, occorre ricordarlo, ha introdotto requisiti obbligatori di carattere professionale in assenza dei quali veniva negata l’iscrizione all’allora Ruolo agenti tenuto presso la Camera di Commercio. L’assenza temporanea di tali requisiti ha fatto ritornare in auge la figura del procacciatore che, essendo intermediario atipico, non risultava assoggettabile alle regole sancite dalla citata Legge 204.
Molto è stato discusso su ciò che distingue le due figure: l’occasionali o la continuità del rapporto; la tipologia della continuità. Ragionamenti sempre più virtuali e lontani dalla realtà.
È legittimo, pertanto, porsi la domanda se è di reale interesse, nell’attuale contesto economico, parlare di “continuità” o meno del rapporto e se, questa continuità, si manifesti in un certo tipo o in un altro di reiterazione di atti e mansioni? O interessa costruire un “plus” al comune processo produttivo?
Perché un’azienda deve incaponirsi a considerare occasionali collaboratori che, magari, rappresentano la propria rete commerciale spesso ricorrendo ad alchimie che ne parcellizzino le modalità del rapporto?
È indubbio che tutto questo, indipendentemente dal profilo del diritto, svilisce ogni presupposto per un autentico progetto tra imprese che è tale, indipendentemente dalle modalità e dai termini, là dove concorre al processo economico. In tal senso può configurarsi anche un rapporto non continuativo se esso risulta “asset aziendale decisivo” sia in termini di apprezzamento economico che di mansioni: se gran parte del processo commerciale passa attraverso collaborazioni occasionali esse non possono più essere ritenute tali perché sono loro che rappresentano la rete vendita che è segmento strutturale del processo. La natura occasionale di una collaborazione è tale non soltanto per i modi e i tempi in cui si manifesta ma soprattutto per sua l’incidenza nel processo economico, per il suo apporto non marginale agli obiettivi prefissati.
Si manifesta, insomma, uno stretto rapporto tra modalità occasionale e marginalità di incidenza economica.
Vi è poi da riflettere sulla natura atipica del rapporto di procacciamento che lo esclude, come abbiamo già detto, dall’applicazione di tutti gli istituti previsti dagli Art.1742 e ss.cc. del Codice civile.
Forse, proprio per questi ultimi motivi sarebbe il caso di ipotizzare una riforma della Legge 204/85 introducendo, alla stregua dell’intermediazione immobiliare, la possibilità di poter svolgere tale attività in forma non professionale con i limiti e le regole previste: limiti temporali e applicazione di tutte le norme di settore. Su questo aspetto non può non aprirsi un ampio spaccato di discussione che deve trovare intorno allo stesso tavolo chi, della rappresentanza di settore, manifesta attenzione alle trasformazioni delle imprese e del mercato di loro riferimento.
In sostanza pare assai poco plausibile che un’azienda, in forma strutturale e continua, si avvalga di prestazioni occasionali svolte al di fuori del contratto di agenzia stante il fatto che esse, globalmente considerate, possano venire a rappresentare una quota/parte importante del risultato economico conseguito dalla rete commerciale che, quindi, con esse, alla fine, si identifica. Se invece, l’occasionalità è realmente tale, basandosi sui criteri sovraesposti, allora che sia regolamentata alla stregua di quanto avviene, ad esempio, nel settore dell’intermediazione immobiliare. Ribaltando, insomma, il problema: se capita una segnalazione o più in quel momento si può diventare, temporaneamente, procacciatore e, a seconda dei limiti del/dei compenso/i applicare la conseguente norma fiscale e previdenziale (Enasarco compreso).
Mi pare assurdo definirsi “occasionale a prescindere”.
Spunti, certamente, niente di definitivo, solo spunti per un ampio confronto tra le parti su un tema che, insieme ad altri, componga il nuovo scenario della professione. Che sempre meno è fatta di “ordini dei clienti da trasferire alla preponente” e sempre più di molteplicità di incarichi, di capacità “problem solving”, di “professionalità” – termine che dice tutto e insieme niente stante la disaggregazione del settore in un’infinità di segmenti – ma da cui non si può prescindere se lo si approccia senza demagogia o presupposti rigidi.
Spunti di una riflessione comune.
A questo punto, in questo scenario codificato da molteplici fattori, mi pare emerga un “convitato di pietra”: la Fondazione Enasarco che, spesso, diciamolo con schiettezza, rappresenta la discriminante della scelta contrattuale.
E’evidente che Enasarco costituisce un problema per gli agenti e per le imprese preponenti in quanto percepito sostanzialmente come un costo. Indipendentemente dagli aspetti già esposti non può essere ignorato questa variabile più generale ed “esterna” alla contrattualistica che intercorre tra le parti.
Questo Enasarco ha ormai perso ogni ruolo. La sua mission principale – la previdenza – è sempre più condizionata dal probabile, futuro disequilibrio economico del Fondo. Al contempo l’assistenza rimane sempre limitata all’inutile Piano Welfare.
Questo “senso di sopravvivenza” che la Fondazione esprime, questa incapacità di “progetto” che i suoi governi, fino ad oggi, hanno manifestato certamente non concorre a costruire un clima fiduciario da parte delle imprese: agenti e preponenti.
Ecco che allora la discussione su Enasarco, si identifica con quella sugli “agenti” e il loro nuovo modo di essere attori del mercato. È un tutt’uno in cui ogni parte è imprescindibile dall’altra: la natura economica del contratto, la professionalità, la molteplicità delle funzioni, il ruolo “problem solving”, la riforma della Legge di settore e, per ultimo ma non certamente ultimo, Enasarco.
Tutto questo non può non rappresentare, anche, una grande opportunità per la rappresentanza di settore.
Insomma: vogliamo chiudere un cerchio o aprire una discussione? O meglio: un grande cantiere di lavoro?

Articolo a cura
di Sauro Spignoli